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IL LINGUAGGIO PUÒ ABBATTERE LO STIGMA?

24 gennaio 2022

Questa riflessione è dedicato a tutti quei giornalisti e quelle giornaliste che trattano il tema dell’HIV senza conoscerlo. Non conoscere qualcosa non è una colpa, c’è sempre tempo per aggiornarsi, ma non ci sono più scuse per continuare a usare un linguaggio che discrimina e stigmatizza.

Le parole danno forma alla consapevolezza che abbiamo del mondo; definiscono le nostre esperienze e le nostre storie, descrivono chi siamo e in che relazione stiamo con gli altri.

Purtroppo, dagli anni ’80, la narrazione relativa all’Hiv è composta da miti e falsi stereotipi che stigmatizzano la sieropositività al virus e fanno sì che le persone che vivono con Hiv si sentano isolate. Secondo questa narrazione tossica l’infezione colpirebbe solo determinate “categorie” di persone considerate “trasgressive” (omosessuali, assuntori di droghe), da cui ne deriva che chi è HIV positivo dev’essere una persona che ha una vita sessuale molto (troppo) attiva o che, comunque, ha fatto qualcosa di “sbagliato”.

Il giudizio e lo stigma oggi pesano ancora tanto: ci sono persone nel nostro Paese, che nel 2022 hanno ancora paura di dire di essere HIV positive a parenti, amici o colleghi di lavoro, o paura di andare a fare il test per l’HIV. Ricordare che grazie alle terapie ormai l’HIV si tiene facilmente sotto controllo e che, sempre grazie ai farmaci, le persone che vivono con HIV e che raggiungono la carica virale non rilevabile (ovvero, quasi tutte) non possono trasmettere il virus ai loro partner sessuali, è fondamentale, ma non basta.

Gli stereotipi, anche se fake, sono duri a morire, specialmente quando portano qualche click in più. Ma certe espressioni, divenendo parte del nostro linguaggio quotidiano, modellano il mondo in cui viviamo e pensiamo, e in questo caso alimentano sierofobia. Ancora oggi sui media troviamo titoli che evocano la parola AIDS, anche quando si sta parlando di infezioni da Hiv. Eppure lo ripetiamo da 40 anni: HIV e AIDS non sono la stessa cosa!

Ancora leggiamo di “untori” o si allude a persone di default portatrici di HIV solo perché trans o omosessuali. Ancora oggi leggiamo “i sieropositivi” o “i malati” riferito a persone che vivono con HIV (e che, magari, in terapia stabile, sono ben lontane dall’essere in AIDS o malate). Definire una persona attraverso la sua diagnosi la aliena dal suo contesto sociale: nessuno di noi è un tumore o un diabete o un’influenza. Siamo tutte e tutti persone, prima di tutto.

Inoltre, dal punto di vista della privacy, sembra che lo stato sierologico di una persona non sia considerato dalla maggior parte dei giornalisti come un dato sensibile. A differenza di tutte le altre condizioni cliniche infatti, se serve a “ingolosire” il pubblico, la positività all’HIV viene tranquillamente divulgata accanto al nome e cognome della persona, anche quando non costituisce l’argomento principale della storia che si sta raccontando.

Un modo efficace invece per affrontare lo stigma è usare un linguaggio che si concentra prima di tutto sulle persone. I Principi di Denver furono scritti nel 1983 da attivisti Hiv nei primissimi anni della pandemia. Nelle sue parole di apertura, questo documento già invocava quasi 40 anni fa l’uso di un linguaggio rispettoso e centrato sulle persone:

“Condanniamo i tentativi di etichettarci come “vittime”, termine che implica sconfitta, e solo occasionalmente ci consideriamo “pazienti”, un termine che implica passività, impotenza e dipendenza dalle cure degli altri. Noi siamo Persone con Hiv/Aids”

Nel corso degli anni, mentre abbiamo appreso di più sul trattamento, la cura e la prevenzione dell'HIV, la comunicazione mainstream sembra essersi arenata su un linguaggio che non riflette i cambiamenti avvenuti. Per rivoluzionare il linguaggio ci vorrà tempo, il cambiamento ne ha sempre bisogno, ma cambiare il modo in cui parliamo e scriviamo delle persone che vivono con HIV oggi non è solo possibile, è necessario.

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